Aneddoti…

Tra gli aneddoti della mia infanzia, che i parenti si divertono a raccontare, vi è quello che narra di quanto mi disperassi alla fine di una festa o di una “riunione di famiglia” e di come, nel tentativo di sbarrare l’uscita di casa, allargassi le braccia sulla porta per impedire che gli invitati andassero via. Naturalmente l’esperimento si rivelava “inutile” e i saluti erano accompagnati da – Non fare così, sciupi tutto! Se fai così non veniamo più! Non sei mai contenta… Tutto deve finire prima o poi!

Non mi piaceva che le cose finissero, che la scuola finisse che le vacanze finissero che le feste finissero che il sabato finisse così come la domenica non mi sarei staccata dai vetri della finestra di casa della nonna dopo aver visto scendere sui tetti prima il crepuscolo e poi la sera. Non sopportavo di sentirmi finire.

Tanto da “meritarmi” l’appellativo di incontentabile… e in effetti ero una bambina vorace e per questo “delegata” a svuotare anche i piatti della mia sorellina, viceversa smagrita e disappetente. Pensavo che questo “servizio di pulitura” fosse una prova di  bontà e abnegazione, dovuta da una brava bambina, docile e metodica, come mi definiva  anche la maestra. Riempire e impilare, saziarmi e mettere le cose a posto, imbottirmi (anche di vestiti, per non prendere freddo, raro per il vero dalle nostre parti…!) e stipare oggetti, sono state per anni le mie abitudini, oltre quella di studiare.  Colmare vuoti e fare ordine per tenere a bada la fine.

Quando ho sperimentato la paura del foglio bianco, l’horror vacui della morte e dell’abbandono, la paralisi della perdita, l’angoscia del conflitto e dell’incomunicabilità, ho iniziato a fare conoscenza con il χαος che mi abita: non soltanto una materia informe, una nebulosa mescolanza, piuttosto una fenditura, da cui proviene un silenzio fondo un urlo sordo, una voragine spaventosa affamata di parole e di emozioni.

E a dispetto di un’immagine pacata e ordinata, da bambina cocciuta – intendeva forse dire questo la suora, perché era suora, la maestra, e vestita di nero – mi ci sono ficcata dentro, in mezzo, ho fatto i conti con l’abisso dove niente sembra possibile, ma anche no, soltanto se ti permetti di stare al gioco, di in-luderti, se ti concedi un pensiero divergente e, infine, se volgendo lo sguardo verso quella crepa profonda, accetti di perderti e l’attraversi per quello che è: non già la fine, il ciglio del burrone, ma un principio di ricerca un’esperienza di conoscenza un percorso di trasformazione.

E così, tra un figlio da osservare, un’altra da ascoltare, una terza da abbracciare, nella condivisione della genitorialità, tra gli onori e gli oneri del ruolo, nella stanza della mediazione, nel chiuso dello studio, intenta a divorare pensieri “altri” e a scribacchiare pensieri “liberi”, nelle relazioni con le persone, ho imparato che davvero tutto scorre, παντα ρει, che “niente è più costante del cambiamento”, che non importa come comincia o come va a finire, che la vita è in mezzo e che ogni storia, ogni vicenda umana, anche quella apparentemente più “abissale”, può rappresentare un’opportunità, a patto che non costruiamo muri, non alziamo barricate, abbandoniamo preconcetti e pregiudizi,  poniamo in dubbio certezze e acquisizioni, non imponiamo uno schema rigido a nessuno – tanto meno a noi stessi/e – ma piuttosto, ci curiamo dell’altro/a “in noi” e “da noi”, ne accogliamo la comune umanità e, come i mulini che catturano il soffio del vento, ci apriamo alla possibilità che la fine sia un inizio.

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2 commenti

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